di Maurizio Gino Morandini
Due mesi. Un lasso di tempo relativamente breve per poter azzardare anche solo qualche parziale giudizio su un Paese diverso dal proprio, però forse sufficiente per iniziare ad annusarne l’aria, a tastarne gli umori, a gustarne i primi titubanti bocconi. Non è sufficiente viaggiare per conoscere il mondo; se non si ha il coraggio di spogliarsi dei propri schemi mentali, delle incrostazioni culturali che rendono miopi, si potranno al più collezionare immagini esotiche e strambi ricordi da raccontare ad amici e parenti una volta tornati tra i rassicuranti confini natii. Porsi in silenzioso ascolto, mettersi in disparte e osservare discreti, senza lasciarsi abbindolare dalle abitudini note, che prepotenti premono per riemergere dall’angolo in cui son state relegate; cercare di entrare in relazione paritaria con chi si ha di fronte, provare a comprenderne gli usi, i costumi, i modi di dire e di agire, cominciare a sondarne mentalità e cultura, stupito ma non ingenuo esploratore: è forse questa la strada migliore per far fruttare la possibilità di viaggiare, di spostarsi, di migrare. Questa, almeno, è la via che ho intrapreso giungendo a Ilembula, Tanzania, il 20 settembre scorso; potrebbe essere errata, non credendo esista il valore assoluto di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ma ho deciso di percorrerla speranzoso, convinto di ricavare soddisfazione e insegnamenti preziosi lungo il cammino. Fino ad ora sono due le cose che mi hanno colpito maggiormente, e portano nomi irresistibili: allegria e serenità. L’allegria è contagiosa: le persone, pur con il carico di fatica che l’esistenza ha dato loro, sembrano sempre contente, lavorano con leggerezza, salutano con il sorriso sulle labbra; non è per nulla complicato lasciarsi trascinare, coinvolgere da questa gaiezza che risveglia la voce dell’infanzia, spesso oscurata dalle esigenze del diventare grandi. Mi piace sostare e ammirare il riso spontaneo che nasce nell’incontro con l’altro, amico od estraneo che sia, mentre in altri luoghi l’altro spaventa, fa paura perché costringe a confrontarsi con se stessi, a riconoscere il proprio volto nel volto di chi si ha di fronte. Non si tratta di semplice accoglienza o di disponibilità, è mancanza di barriere, di steccati che dividono, che proteggono l’io dagli altri. In me rimane la consapevolezza di essere un mzungu, uno straniero dalla pelle bianca, e ciò è una costante che non potrà mai scomparire. Tuttavia, questo essere straniero non comporta un’alterità spiccatamente marcata come accade invece spesso in situazioni capovolte; qui è possibile sentire a fondo l’appartenenza all’unica grande famiglia che ci rende tutti fratelli. La serenità, poi, è forse la caratteristica che più ho apprezzato, ritrovandola in dosi talmente massicce da non credere potesse esistere una tranquillità siffatta. I ritmi a cui ci costringe, e ci abitua, la nostra società sono talmente rapidi e frenetici che risulta quasi impossibile ritagliarsi gli spazi necessari per potersi distendere e rilassare; le attività che si affrontano quotidianamente sono foriere di un’alta quantità di stress, perché intrise di imperativi contrari al benessere psicofisico dell’essere umano: efficienza, efficacia, velocità, competitività, accanita difesa dello status acquisito, volontà di rapida risalita della scala sociale. In Tanzania, osservando la gente mentre compie i propri riti quotidiani, mentre lavora, cucina, chiacchiera o commercia, ci si accorge che nulla si trova sotto la mannaia della fretta; si adempie alle proprie faccende con calma e distensione, senza frenesia. Non pare esserci quella spasmodica attesa di qualcosa di là da venire, che nell’opulento Occidente lascia un pertugio di insoddisfazione nelle nostre menti, sempre tese verso nuovi obiettivi, verso scopi futuri, suggerendo che, forse, si ama più il desiderio in sé che la cosa desiderata: insoddisfatti, mai appagati, cerchiamo di colmare il vuoto dei sentimenti riempiendoci di oggetti da possedere, mete da raggiungere, posizioni da conquistare. Nei tanzaniani colgo invece una profonda serenità nei confronti della propria esistenza, una serenità che permette di gustare ogni giorno, ogni ora, ogni attimo vissuto, sorta di carpe diem africano, che aiuta ad affrontare con animo lieto e fortificato gli accidenti, le perdite, gli imprevisti, anche i più dolorosi. Può benissimo darsi che questa linea di lettura sia dettata più dai miei stereotipi e dai miei bisogni nascosti; può essere che la chiave di interpretazione utilizzata in questa breve analisi sia completamente fallace, e non condivisibile da chi conosce maggiormente questa realtà. Nonostante questo, sono felice di trovarmi a Ilembula e di respirare quest’aria, riempiendomi i polmoni di allegria e serenità come da tempo non accadeva. Se poi mi sarò soltanto illuso, sarà comunque un’illusione da cui sarà dolce lasciarsi cullare, almeno fino al momento in cui il velo verrà squarciato e la realtà mi apparirà nelle sue tristi vesti. Il viaggio è solo all’inizio, le acque sono ancora immote e il vento soffia fresco e leggero, mentre in lontananza mi attrae l’ipnotica nenia di affascinanti sirene