di Ignazio Caruso
le nuove costruzioni in Tanzania tendono a ripetere schemi che vanno consolidandosi col tempo: una costruzione considerata moderna sembra non poter prescindere dall’avere una complessa copertura in lamiera su un unico piano fuori terra, realizzato in mattoni nascosti da un intonaco cementizio. Le case tradizionali erano sempre state realizzate in terra cruda con una copertura in paglia, poi in mattoni crudi eventualmente protetti da un intonaco in terra. Oggi non si può ignorare la diffusa volontà di imitare le tipologie in cemento armato dei paesi industrializzati e, in attesa che il costo del calcestruzzo divenga più accessibile, si preferisce ricrearne l’aspetto nascondendo i laterizi sotto una coltre di cemento.
In un villaggio nella provincia di Njombe si è cercato di invertire la tendenza: Wanging’ombe si trova nella regione di Iringa, a sud-ovest della Tanzania, posto nella savana tagliata dall’unica strada asfaltata che collega la città Mbeya e lo stato del Malawi a Dar es Salaam, la capitale economica situata a circa 1000 km di distanza. I suoi 15 mila abitanti sono dispersi su un’area immensa, senza veri e propri collegamenti stradali, e l’agglomerato più consistente di case è sulla strada carrabile. Poco distante da questa padre Tarcisio Moreschi, un prete italiano da più di trent’anni in Africa, ha immaginato l’inserimento di un centro di riabilitazione post-operatoria per i bambini disabili della regione, molto numerosi e spesso abbandonati – insieme alle loro famiglie – sia dal governo che dalla comunità locale.
Per costituire una prima base per un servizio di riabilitazione, che servisse come luogo d’incontro, è stato progettato un centro di aggregazione dei bambini disabili. Questo edificio non voleva differenziarsi troppo dalle costruzioni più tradizionali del villaggio ospite, né essere un anonimo luogo di cura di bambini “diversi” dagli altri e ignorati da tutti, ma doveva invece mostrarsi come un’architettura di cui la comunità potesse andar fiera.
Le più vecchie abitazioni dei Wabena – la tribù locale – sono in terra cruda e si compongono di due grosse e buie stanze, divise da un corridoio; più recentemente si sono trasformate in case in mattoni, crudi o cotti, e da un tetto a due falde in lamiera sui cui lati si trovano coperture ad un singolo spiovente.
Essendo il centro Bethzatha finanziato anche da soldi italiani, gli abitanti di Wanging’ombe si aspettavano che seguisse le mode degli arricchiti locali – con complicati tetti e cemento armato in quantità – ma vi è stata invece la precisa scelta di rivolgersi a forme più tradizionali e riconoscibili, per poter essere percepiti come una inclusione e, allo stesso tempo, una peculiarità del villaggio.
La popolazione ha contribuito alla sua edificazione, sia attraverso feste e aste per ottenere una parte dei fondi richiesti, sia grazie alla manodopera gratuita che ha creato le migliaia di mattoni necessari. Una volta terminata la Stagione delle Grandi Piogge, verso giugno un gruppo di artigiani ha cominciato a raccogliere il fango di un vicino terreno argilloso e l’ha compresso in stampi divisi in tre scomparti, per ricavarne i mattoni da essiccare al sole; appena maneggiabili, questi sono stati impilati a creare dei forni autoportanti dell’altezza di circa quindici file. Prima di cuocerli si sono sigillati con del fango tutti gli interstizi che all’esterno separavano un mattone da quello adiacente, in modo da impedire il passaggio di aria. Infine grossi tronchi hanno riempito l’imboccatura del forno, anch’essa richiusa, in modo da attuare una combustione lenta e senza fiamma per diversi giorni. Il risultato sono mattoni pieni, spesso di dimensioni leggermente diverse, piuttosto friabili, dei quali una buona parte risulta essere troppo cotta e, molte di più, troppo poco. In questi casi i mattoni anneriti – perché bruciati dalle fiamme – vengono usati sulla parte interna della muratura, in modo da non venire a contatto con gli agenti atmosferici ché in breve tempo li degraderebbero; essendo sconsigliabile un uso esterno anche dei mattoni poco cotti, se non protetti da un intonaco, essi vengono posti – insieme ai molti rotti – come base per la gettata di calcestruzzo che viene a costituire il pavimento.
Si è dunque rinunciato ad un rivestimento completo di intonaco preferendo mostrare le superfici tessute con una disposizione gotica dei laterizi (ancora poco usata a livello locale), che sono stati tra loro legati con una malta formata da due parti di sabbia e di terra e da 1/10 di cemento. Al di sotto di questi muri portanti è stata realizzata una fondazione continua composta da blocchi di una locale pietra granitica, posti sopra un letto di sabbia e legati con una malta bastarda di uguali parti di sabbia e di terra stabilizzata con un 10% di cemento e ancora sormontati da un cordolo in calcestruzzo armato. E data l’umidità portata dalle forti piogge stagionali, si è prestata cura nel rendere impermeabili le murature e la pavimentazione del centro grazie a una soluzione a basso costo: ai già citati mattoni rotti, usati come base per la gettata di calcestruzzo, si è infatti aggiunto un telo impermeabile ricavato dall’unione dei sacchi di cemento vuoti, che localmente sono in polipropilene.
La parte dell’edificio più esposta agli agenti atmosferici è stata intonacata e dipinta di arancione e azzurro per venire incontro al gusto locale, così amante dei colori accesi, e alla destinazione d’uso di un edificio pensato principalmente per i bambini: per loro sono anche stati pitturati interni ed esterni con animali in stile tingatinga, scuola artistica tipica della Tanzania.
E ai bambini è stato dedicato uno dei cinque pilastri che reggono il portico, composto di parallelepipedi cavi normalmente usati per realizzare piccole finestre, qui coricati, traslati, armati e riempiti di calcestruzzo per dare più movimento alla struttura. Se quattro pilastri sono identici, ve n’è uno più piccolo, in disparte, che rappresenta bene la loro condizione di disabili all’interno di una società che – più di altre – fatica ad accettarli: ma a differenza degli altri questo è un pilastro colorato di tonalità diverse, e per loro è certamente il più bello, incessantemente impreziosito dalle impronte con le quali i nuovi bambini ospiti firmano l’appartenenza al loro centro.